Novembre 2018
Venerdì, 30 Novembre 2018 15:15

Latte d’asina per i neonati prematuri



È un fortificatore ideale per la nutrizione dei bimbi pretermine in terapia intensiva: riduce sensibilmente i casi di intolleranza. È quanto emerge da uno studio condotto dall’Ospedale S.Anna di Torino e dal Cnr-Ispa di Torino, pubblicato sulla rivista Journal of Pediatric Gastroenterology and Nutrition

Il latte umano è il nostro primo alimento, anche per i prematuri che in Italia sono più del 6% di tutti i nati: oltre 30.000 l’anno, di cui 5.000 sotto i 1.500 grammi di peso. Tuttavia, dati i particolari fabbisogni nutrizionali, questo alimento deve essere fortificato con nutrienti, soprattutto proteine da latte vaccino, spesso mal tollerati dal fragile intestino dei bimbi nati pre-termine, ai quali causa vomito e distensioni addominali. Una risposta a questi problemi arriva da uno studio che dimostra come i segni di intolleranza alimentare siano più che dimezzati con l’uso del latte d’asina. La ricerca, che ha coinvolto 156 nati pre-termine, è stata condotta dai ricercatori dell’Istituto di scienze delle produzioni alimentari del Cnr di Torino (Cnr-Ispa) e dall’equipe di Terapia intensiva neonatale universitaria dell’ospedale Sant'Anna della Città della Salute di Torino con il sostegno della Compagnia di San Paolo di Torino ed è pubblicata sul Journal of Pediatric Gastroenterology and Nutrition.


“Studi recenti avevano già evidenziato che quello d’asina è il latte di mammifero più vicino come composizione al latte umano. Da qui l’idea di provarlo come integratore del latte materno”, premette Laura Cavallarin, ricercatrice Cnr-Ispa. “La prima fase del progetto ha previsto il disegno e la produzione del fortificatore sperimentale. Sono stati ottenuti due concentrati di latte d’asina, con tenore proteico e calorico uguale ai corrispondenti prodotti a base di latte vaccino disponibili in commercio, rispettando la normativa vigente in materia di alimenti per infanzia e garantendone la sicurezza microbiologica. Il latte d’asina, raccolto da due allevamenti piemontesi e uno di Reggio Emilia, è stato fornito da Eurolactis Italia. La formulazione e produzione del fortificatore sono stati brevettati, mentre la polverizzazione ed il confezionamento del prodotto finito sono state condotte con il supporto del Dipartimento di scienze del farmaco dell’Università del Piemonte Orientale e di due imprese farmaceutiche piemontesi, Procemsa e Proge Farm”.

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Mercoledì, 28 Novembre 2018 13:19

Il clima trasforma l'Artico in un 'nuovo Oceano'



Report WWF in occasione della Conferenza Sustainable Blue Economy di Nairobi

Il nuovo rapporto “Getting it right in a new ocean”, lanciato oggi dal Programma Artico del WWF, è il primo studio che sottolinea come le risorse e le economie dell’Oceano Artico possano essere sviluppate per garantire sul lungo periodo il benessere dell’economia e dell’ecosistema per questa regione e per il pianeta stesso. Il report segnala come gli approcci convenzionali allo sviluppo siano una minaccia per la possibile sopravvivenza di buona parte degli ecosistemi tipici della regione, indebolendo così le comunità e le economie .
Il report è stato pubblicato in occasione della Conferenza Sustainable Blue Economy (ospitata in questi giorni a Nairobi dai governi di Kenya, Canada e Giappone) e spiega come, per effetto della fusione dei ghiacci dovuta al cambiamento climatico globale, si stia creando un “nuovo oceano” e come questo avrà un profondo impatto sulla biodiversità di questa regione e sulle comunità. Il pressante sviluppo economico che sta sfruttando questo trend – fino a mille miliardi di dollari nel corso degli ultimi 15 anni – potrebbe peggiorare molti degli impatti negativi nella regione almeno fintanto che non verranno prese chiare decisioni per tracciare una rotta sostenibile. Il report vuole essere una guida per governi e aziende per il raggiungimento di soluzioni sostenibili in questo momento cruciale per l’Artico.

Simon Walmsley, del Programma Artico del WWF, ha affermato: “Il cambiamento climatico sta rendendo l’Oceano Artico più accessibile che mai. Ma l’Artico rimane una regione remota, un posto rischioso per fare business. Applicando un approccio sostenibile, prima che si avviino imponenti attività di business, possiamo aiutare a prevenire gli impatti più negativi per questo ecosistema estremamente vulnerabile.

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Il rischio di suicidio e di comportamenti pericolosi per la vita è più elevato tra gli adolescenti appartenenti alle minoranze sessuali. Lo afferma uno studio dell’Università di Milano-Bicocca, dal titolo “Estimating the risk of attempted suicide among sexual minority youths”, recentemente pubblicato sulla rivista JAMA Pediatrics (doi:10.1001/jamapediatrics.2018.2731).

Il suicidio è la seconda causa di morte tra gli adolescenti, a livello mondiale. Nonostante fosse già nota questa tendenza da parte delle minoranze sessuali, per la prima volta è stata compiuta una più precisa valutazione dell’entità del fenomeno negli adolescenti LGBT.

Lo studio di Ester di Giacomo, psichiatra e dottoranda in Neuroscienze del gruppo di ricerca guidato da Massimo Clerici, docente di Psichiatria e direttore della scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università di Milano-Bicocca, ha preso in esame 35 studi accademici sul tema e un campione di quasi due milioni e mezzo di adolescenti tra i 12 e 20 anni, di dieci nazionalità diverse.
Dall’analisi è risultato che gli adolescenti appartenenti al gruppo complessivo delle minoranze sessuali mostrano un tasso di rischio di suicidio (OR=3.50) superiore alle tre volte e mezzo rispetto ai loro coetanei eterosessuali.

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Venerdì, 09 Novembre 2018 10:33

Spiagge a rischio per l’aumento di CO2

 

 

Immagine del campionamento di sedimento nella prateria di Posidonia oceanica

 

Scienziati di Cnr e Università Ca’ Foscari hanno realizzato la prima ricerca scientifica sugli effetti
a catena che legano emissioni in atmosfera, acidificazione del mare ed erosione costiera. Il
Mediterraneo caso di studio: possibile calo dei sedimenti del 31% al 2100. I risultati pubblicati su

 

Dune e spiagge potrebbero modificare il loro aspetto per l’aumento di emissioni di anidride carbonica in atmosfera, già tra le concause del cambiamento climatico in atto. A svelarlo un lavoro coordinato dall’Istituto per lo studio degli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ias) di Oristano, svolto in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari Venezia. La ricerca, pubblicata sulla rivista Climatic Change, ha analizzato la catena di effetti innescati dall’aumento di CO2 sull’ambiente marino, stimando che da oggi al 2100 l’accumulo dei sedimenti alla base dei sistemi dunali mediterranei potrebbe calare del 31%, con erosione delle spiagge e maggiori rischi di inondazioni. Il caso di studio analizzato dai ricercatori è stata la baia di San Giovanni, lungo la penisola del Sinis, in Sardegna.


“Lontano dalle foci dei fiumi, i sistemi duna-spiaggia possono essere formati, interamente o in buona parte, da sedimenti carbonatici prodotti dagli ecosistemi marini, ad esempio praterie sottomarine di Posidonia oceanica”, spiega Simone Simeone, ricercatore Cnr-Ias, che ha coordinato lo studio. “Tali sedimenti potrebbero essere dissolti dall’acidità crescente dei mari: secondo recenti studi entro fine secolo il pH marino potrebbe scendere di circa 0.4 unità. A provocare l’acidificazione degli oceani, come noto, è l’aumento dell’anidride carbonica in atmosfera”. La ricerca ha rivelato che gli effetti di questo fenomeno possono stravolgere il bilancio sedimentario
di un sistema spiaggia-duna. “Abbiamo constatato come una quantità rilevante del sedimento che forma il sistema spiaggia-duna sia costituito da resti di organismi vulnerabili agli effetti dell’acidificazione.

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Nonostante la sua scoperta risalga a ormai 65 anni fa e da allora sia stata costantemente studiata dagli scienziati di tutto il mondo, la celebre doppia elica del DNA custodisce ancora molti misteri. Uno di questi riguarda la distribuzione delle quattro tipologie di nucleotidi che ne compongono la struttura (adenina, timina, guanina e citosina): sappiamo che ci sono particolari simmetrie all’interno dei singoli filamenti di DNA, ma molto resta da scoprire sulla loro origine.

Un passo avanti in questa direzione arriva ora dal lavoro di un gruppo di ricerca italo-australiano che coinvolge l’Università di Milano-Bicocca, l’Università di Sydney e l’Università di Bologna. Pubblicato su Nature Scientific Reports, lo studio presenta per la prima volta un modello matematico in grado di spiegare la particolare ripartizione delle basi all’interno del DNA. Un risultato che potrebbe aiutarci a far luce sui processi evolutivi della doppia elica e a spiegare le funzioni ad oggi ancora ignote di molte sue parti.

Simmetrie del DNA
Il genoma umano è formato da più di tre miliardi di coppie di basi azotate, i cosiddetti nucleotidi: adenina (A), timina (T), guanina (G) e citosina (C). Pronunciando un carattere al secondo senza mai fermarsi si impiegherebbero circa cento anni per elencare l'intera sequenza dei nucleotidi presenti al suo interno.

Tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, il biochimico austriaco Erwin Chargaff, ricorrendo alla cosiddetta tecnica di cromatografia su carta, riuscì a separare la molecola del DNA nelle sue basi costituenti (appunto le quattro basi azotate A, C, G, T) e a determinare la loro percentuale di abbondanza relativa. Grazie a questa tecnica notò che mentre la composizione in basi del DNA varia da una specie all'altra, in ciascun organismo c’è sempre una precisa simmetria: la quantità di adenina è uguale a quella di timina e la quantità di guanina è uguale a quella di citosina.

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La Sapienza ha partecipato a un importante studio AIRC sull’identificazione di nuovi farmaci contro il melanoma. La collaborazione scientifica con l’Istituto nazionale tumori Regina Elena e l’Irccs Pascale di Napoli ha permesso di definire il ruolo cruciale dei microRNA nella resistenza alle terapie. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista Cell Death & Differentiation
La collaborazione scientifica fra l’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena (IRE), la Sapienza e l’IRCCS Pascale di Napoli, sostenuta dall’AIRC - Associazione italiana per la ricerca sul cancro, ha prodotto interessanti risultati sul trattamento del melanoma. I ricercatori, coordinati da Gennaro Ciliberti dell’Istituto nazionale tumori Regina Elena e da Rita Mancini del Dipartimento di Medicina clinica e molecolare, hanno indagato il ruolo dei microRNA nella resistenza alle terapie, aprendo nuove strade al trattamento del tumore. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista Cell Death & Differentiation.

Attraverso tecniche di biologia molecolare il team ha osservato che numerosi microRNA sono presenti in maniera differente dopo lo sviluppo di resistenza ai farmaci anti-BRAF (il gene che, se mutato, dà origine al cancro). Alcuni sono più presenti nelle cellule resistenti mentre altri lo sono meno. L'ipotesi che origina da questa osservazione è che il melanoma per diventare resistente debba evolvere, liberandosi di determinati miRNA e arricchendosi di altri.

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Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Medicina interna e specialità mediche, ha dimostrato sperimentalmente il ruolo del particolato atmosferico nell’insorgenza di malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista Cell Death & Disease
Sempre più numerose evidenze scientifiche sostengono il concetto secndo cui i fattori ambientali possano contribuire alla patogenesi delle malattie autoimmuni, specialmente di quelle reumatologiche. Dimostrare il ruolo dell’inquinamento ambientale nel determinismo di tali patologie, ne amplia lo spettro dei fattori di rischio, ma anche il campo d’intervento e prevenzione.

È in questo contesto che si inserisce la ricerca coordinata da Guido Valesini del Dipartimento di Medicina interna e Specialità mediche in collaborazione con Silvana Fiorito e i ricercatori dell’Istituto di Farmacologia Traslazionale (IFT) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), recentemente pubblicata sulla rivista Cell Death & Disease. Lo studio ha approfondito il ruolo del particolato atmosferico proveniente dai gas di combustione dei motori diesel Euro 4 ed Euro 5 e ne ha valutato gli effetti sulla funzionalità e sulle caratteristiche biologiche delle cellule del tessuto bronchiale.

I risultati degli esperimenti hanno dimostrato come le nanoparticelle carboniose (uno dei principali componenti derivanti dalla combustione dei motori diesel) siano in grado di indurre autofagia (una forma di autodigestione) e morte per apoptosi delle cellule dell’epitelio bronchiale, con concomitante produzione di proteine “citrullinate”.

“È interessante sottolineare – commenta Guido Valesini – come il particolato Euro 5 sia risultato potenzialmente più dannoso rispetto a quello proveniente dai motori diesel Euro 4. Questo fatto dimostra che una riduzione della quantità delle emissioni di particolato non comporta automaticamente una riduzione degli effetti tossici”. La citrullinazione è un processo naturale e fisiologico che rappresenta un modo per regolare la funzione delle proteine. Nei soggetti affetti da artrite reumatoide tuttavia questo processo diventa eccessivo e provoca un accumulo patologico di proteine citrullinate, le quali evocano una risposta immunologica che causa la produzione di anticorpi diretti contro queste stesse proteine, determinando un attacco autoimmune contro i tessuti normali.

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Lunedì, 05 Novembre 2018 12:32

Stress idrico e termico minacciano il mais

Variazione delle perdite di resa dovute alla siccità in mais (a) frumento invernale (b) nel periodo 2040-2069 (centrando l’orizzonte temporale al 2050) per lo scenario RCP4,5 rispetto al periodo di riferimento (1981-2010). I risultati sono presentati considerando l’effetto della CO2 (in alto) e senza (in basso) per due GCM: HadGEM2-ES (prima colonna) e MPI-ESM-MR (seconda colonna). I risultati mostrati sono la risposta mediana tra i 10 modelli colturali considerati.


Siccità e ondate di calore nel periodo estivo saranno, da qui al 2050, responsabili della diminuzione di produzione a scala europea del mais. Per il frumento, che presenta un ciclo colturale più precoce, si prevedono invece aumenti di resa. A individuare nuovi modelli di pratiche colturali e di miglioramento genetico delle varietà erbacee per contrastare gli effetti del riscaldamento globale, un team di ricercatori internazionali di cui fanno parte Istituto di biometeorologia Cnr e Università di Firenze. I risultati della ricerca sono stati pubblicati su Nature Communications
L’agricoltura è fra i settori produttivi maggiormente esposti alla variabilità climatica. Stress idrico e termico potrebbero essere causa di una riduzione, da qui al 2050, della produzione, su scala europea, di mais. Per contrastare questi effetti, anche in considerazione dei nuovi dati del Rapporto Speciale “Global warming of 1.5°C” - IPCC (The Intergovernmental Panel on Climate Change sul superamento del limite di 1,5 gradi del riscaldamento globale nel 2040), un team internazionale di cui fanno parte ricercatori dell’Istituto di biometeorologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibimet) e del Dipartimento di scienze delle produzioni agroalimentari e dell’ambiente (Dispaa) dell’Università di Firenze, ha individuato nuovi modelli di pratiche colturali e di miglioramento genetico delle varietà di mais e frumento. I risultati della ricerca, realizzata all’interno del progetto europeo MACSUR (Modeling European Agriculture with Climate Change for food Security), sono stati pubblicati su Nature Communications.

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