Dicembre 2021


Lo studio coordinato dall’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista New Phytologist ha analizzato oltre 8 milioni di dati relativi a 67.000 specie vegetali su scala globale


La distribuzione delle piante vascolari del nostro pianeta si divide in due grandi gruppi a partire dalla Laurasia e dal Gondwana, due antichi continenti risalenti a circa 250 milioni di anni fa. È questo quanto emerge da uno studio pubblicato sulla rivista “New Phytologist” coordinato da Angelino Carta del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, in collaborazione con Lorenzo Peruzzi dello stesso Dipartimento e Santiago Ramírez-Barahona dell’Universidad Nacional Autónoma de México.

Per giungere a questa conclusione i ricercatori hanno analizzato oltre otto milioni di dati relativi alla distribuzione di 67.000 specie vegetali su scala globale. La divisione Laurasia-Gondwana, due antichi continenti che corrispondono oggi all’incirca alle terre del nostro emisfero settentrionale e meridionale, si rispecchia inoltre in alcune differenze fra i due grandi gruppi di piante. La flora settentrionale, costituita soprattutto da piante erbacee, è infatti a livello evolutivo più recente rispetto a quella meridionale costituita soprattutto piante legnose tropicali e in cui prevalgono linee evolutive più antiche.

Pubblicato in Geologia


Uno studio congiunto tra un team di ricercatori del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza, dell’Istituto superiore di sanità e del Centro di Riferimento Regionale per la Fibrosi Cistica della Regione Lazio, che ha visto il sostegno della Fondazione per la ricerca sulla fibrosi cistica, apre la strada a cure personalizzate e più efficaci per migliorare la qualità di vita dei pazienti e aumentarne l’aspettativa
Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista European Respiratory Journal e coordinato da Marco Lucarelli del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza Università di Roma e da Adriana Eramo dell’ISS, ha evidenziato la possibilità di espandere in coltura, con grande efficienza e in grande quantità, le cellule staminali respiratorie dall’epitelio nasale di ogni paziente con fibrosi cistica utilizzando un nuovo approccio di riprogrammazione cellulare.

A partire da queste cellule staminali respiratorie si possono ottenere modelli di malattia cosiddetti ex vivo, mediante speciali colture differenziative per cellule respiratorie e mediante la generazione di organoidi che riproducono in forma miniaturizzata e tridimensionale il tessuto respiratorio difettoso del paziente.

Pubblicato in Medicina



Uno studio coordinato dall’Istituto di sistemi complessi e dall’Istituto di farmacologia traslazionale del Cnr, svolto in collaborazione con Irccs Fondazione S. Lucia e Fondazione Ebri, ha dimostrato come l’anticorpo monoclonale 12A12 determini miglioramenti significativi nelle principali alterazioni prodotte da questa malattia neurodegenerativa. La ricerca è stata pubblicata sull’International Journal of Molecular Sciences.

Tra i principali processi neuropatologici responsabili della malattia di Alzheimer riveste grande importanza l’alterazione della proteina Tau, che tende ad accumularsi nel cervello dei pazienti affetti da questa patologia e ad aumentare col progredire della malattia. Uno studio coordinato dall’Istituto di farmacologia traslazionale (Ift) e dall’Istituto dei sistemi complessi (Isc) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), al quale hanno collaborato l’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari (Cnr-Ibiom), la Fondazione e Clinica Irccs S. Lucia, la Fondazione Ebri, il Policlinico Universitario A. Gemelli e l’Irccs Fondazione Bietti, ha mostrato l’efficacia dell’anticorpo monoclonale 12A12 contro questo processo. La ricerca è stata pubblicata sull’International Journal of Molecular Sciences.
“Lo studio preclinico che abbiamo condotto ha mostrato che l’anticorpo monoclonale 12A12 agisce contro un frammento tossico che si genera nella proteina Tau patologica, e così facendo produce un netto miglioramento e una regressione di alcuni deficit cognitivi di memoria, come quella spaziale o di riconoscimento, così come delle più gravi e importanti alterazioni neuropatologiche presenti in questa malattia”, spiega Roberto Coccurello del Cnr-Isc.

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Uno studio dei ricercatori del Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino, guidati dal Prof. Emilio Hirsch, svela nuovi elementi chiave dei processi di invecchiamento. La ricerca può avere ricadute imprevedibili: dalla comprensione dei meccanismi del cancro al contrasto al Covid 19.

 Perché ognuno di noi invecchia? È una domanda chiave della biologia molecolare, ma una risposta precisa ancora manca. Non sappiamo se l’invecchiamento sia incontrastabile o se sia un fenomeno mitigabile. Tuttavia oggi è noto che le cellule del nostro corpo possono seguire un programma di cambiamento, chiamato senescenza, che se attivato porta all’invecchiamento prima a livello cellulare e poi dell’organismo intero. Chiarire cosa scateni questo fenomeno è una delle sfide più straordinarie del nostro tempo.

 I ricercatori del Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino guidati dal Prof. Emilio Hirsch hanno aggiunto un sostanziale tassello alla soluzione di questo enigma, in uno studio i cui risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista americana Science, una delle più autorevoli al mondo in campo scientifico. Lo studio, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, prende le mosse da precedenti risultati ottenuti nell’ambito della ricerca sul cancro e suggerisce per la prima volta che la senescenza può essere scatenata da specifici difetti della proliferazione cellulare.

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Venerdì, 10 Dicembre 2021 13:25

IL DECALBERO DEL WWF

 

10 spunti green per Natale: dai regali all’albero fino al cenone, ecco come alleggerire il nostro impatto sul Pianeta

 

1) 8 dicembre fuori porta? Abbassa l’impronta del tuo soggiorno.
Per mesi non abbiamo aspettato altro che ricominciare a viaggiare e l’8 dicembre è una buona occasione per organizzare una gita o un viaggio fuori porta. Ma un viaggio può essere anche a basso impatto: se non devi andare oltreoceano scegli il treno anziché l’aereo, così contribuirai ad abbassare l’impronta del tuo soggiorno. Arrivati a destinazione meglio andare a piedi o in bici, per inquinare meno, scoprire angoli nascosti e vivere un luogo come chi lo abita. Scegli strutture ricettive che abbiano un’attenzione all’ambiente e anche tu fai la tua parte: per esempio, la quantità di biancheria lavata senza un reale bisogno implica un enorme consumo di acqua, energia e detersivi. Chiedine il cambio solo quando lo ritieni davvero opportuno. Tutto si muove tramite app: non stampare biglietti su carta ma scaricali sul cellulare.

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Anche il tipo di attività lavorativa influisce nell’andamento del declino cognitivo. È quanto rilevato da un nuovo studio che coinvolge SISSA e Università di Padova e che ha preso in esame un ampio campione di popolazione italiana.

Non sempre il lavoro logora, anzi. Un recente ricerca dimostra che ha un ruolo attivo nel mantenere il nostro cervello in salute. “Abbiamo dimostrato l’influenza che ha l’occupazione sulle prestazioni cognitive” racconta la Professoressa Raffaella Rumiati, neuroscienziata cognitiva della SISSA e autrice del paper Protective factors for Subjective Cognitive Decline Individuals: Trajectories and changes in a longitudinal study with Italian elderly, pubblicato recentemente su European Journal of Neurology. “Gli studi per identificare i fattori che influiscono sulla nostra attività mentale nel corso dell’invecchiamento sono numerosi ed era già nota l’influenza di altri fattori legati alla qualità della vita come l’istruzione formale e continua. Dalla nostra analisi emerge come alle differenze nell’invecchiamento cognitivo normale e patologico contribuisca anche il tipo di attività lavorativa”.

L’analisi: cervelli resistenti e in declino


Lo studio, condotto da un team di scienziate dell’Università di Padova (Dip. FISPPA), SISSA – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati e IRCSS Ospedale San Camillo di Venezia, ha quantificato il contributo relativo di fattori demografici (età e sesso), comorbilità, istruzione e tipo di occupazione a ciò che tecnicamente viene chiamato riserva cognitiva, ovvero la capacità di resilienza del cervello rispetto a un danno cerebrale dovuto a una patologia o all’invecchiamento.
I partecipanti sono stati valutati con una serie di test neuropsicologici e successivamente suddivisi in tre tipologie di profili sulla base dei risultati: soggetti a rischio di declino cognitivo, soggetti con declino lieve e soggetti con declino avanzato. I test sono stati condotti altre due volte a distanza di alcuni anni: successivamente i partecipanti sono stati classificati come “resistenti” o “in declino” a seconda che avessero mantenuto o peggiorato il loro profilo rispetto alla loro performance iniziale. Istruzione e occupazione lavorativa: importanti per mantenersi giovani La novità più importante emersa nell’analizzare i risultati è che, oltre all’età e all’istruzione, fattori già studiati nella letteratura sul tema, anche l’occupazione si è rivelata come un predittore delle prestazioni dei partecipanti alle diverse fasi somministrazioni dei test, come spiega la Professoressa Sara Mondini dell’Università di Padova: “Abbiamo confermato l’osservazione che l'istruzione protegge le persone potenzialmente a rischio di sviluppare il declino cognitivo ma, soprattutto, abbiamo dimostrato che questi stessi individui avevano svolto professioni più complesse degli individui degli altri due gruppi, i soggetti con declino cognitivo lieve e avanzato. Lo
studio ha poi evidenziato come il gruppo dei “resistenti” mostrasse in media livelli superiori di istruzione e un’attività lavorativa che prevedeva mansioni più complesse rispetto al gruppo “in declino””.


Un risultato che dimostra i benefici della mobilitazione cognitiva promossa dal life-long learning (l’apprendimento permanente) e, più in generale, come connessione sociale, senso costante di uno scopo e capacità di essere indipendenti contribuiscono alla salute cognitiva e al benessere generale nell’affrontare l'invecchiamento.

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Asteroid è l’acronimo di un nuovo studio frutto della collaborazione tra diversi gruppi di ricerca italiani e valutato dal Mur miglior progetto per il suo settore nell’ambito dei Prin 2020
Studi recenti hanno documentato una frequente associazione tra l’insorgenza e l’aggressività dei tumori ormonosensibili, quali il tumore al seno e il tumore alla tiroide, e i contaminanti ambientali. E questo rappresenta il punto di partenza di Asteroid, nuovo progetto finanziato dal ministero dell’Università e della ricerca (Mur) nell’ambito del bando Prin 2020 e valutato come miglior progetto (primo classificato nel settore ERC LS3).

Lo studio è condotto da un team di ricercatrici e ricercatori di diverse università con competenze complementari ed interdisciplinari.

Il coordinatore è Michele Milella, responsabile della Sezione di Oncologia medica del dipartimento di Medicina dell’Ateneo di Verona che metterà a disposizione le sue competenze negli studi clinici e traslazionali nel carcinoma mammario, in collaborazione con la Fondazione Policlinico Gemelli.

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Lunedì, 06 Dicembre 2021 10:11

Il primo branco di dinosauri italiano

 


Sono almeno sette esemplari di Tethyshadros insularis, tra cui “Bruno”, il più grande e completo dinosauro mai rinvenuto in Italia. Hanno 80 milioni di anni, erano più grandi di quanto pensato finora e vivevano in un ecosistema unico sulle sponde di un antico oceano.
C’è un branco di dinosauri in Italia. Numerosi scheletri in perfetto stato di conservazione sono stati ritrovati nel sito di Villaggio del Pescatore, comune di Duino-Aurisina, a pochi chilometri da Trieste. La scoperta è stata riportata da un gruppo internazionale di ricerca coordinato da studiosi dell'Università di Bologna in un articolo pubblicato su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature.
Gli straordinari scheletri venuti alla luce appartengono alla specie Tethyshadros insularis: si tratta di almeno sette esemplari (ma probabilmente sono undici), tra cui in particolare un nuovo dinosauro, soprannominato “Bruno”, che rappresenta il più grande dinosauro mai rinvenuto in Italia.


Nello stesso sito sono stati inoltre ritrovati pesci, coccodrilli, rettili marini e persino piccoli crostacei: tutti elementi che hanno permesso di ricostruire una vivida immagine di questo antico ecosistema senza eguali al mondo. I reperti rinvenuti al Villaggio del Pescatore possono essere oggi ammirati al Museo Civico di Storia Naturale di Trieste, concessi in deposito da parte del Ministero della Cultura. "Per la prima volta abbiamo in Italia un giacimento di dinosauri, in cui non solo troviamo i resti di questi animali, che sembrano appartenere a mondi lontani da noi, ma ne troviamo tanti, insieme agli animali che con loro condividevano quel mondo perduto", dice Federico Fanti, professore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell'Università di Bologna, che ha coordinato lo studio. "Questo sito eccezionale è un luogo dove dal terreno possiamo, e lo stiamo facendo, estrarre tanti scheletri di dinosauri, uno più spettacolare dell’altro; e questa è la prima volta in cui sappiamo esattamente dove continuare a scavarli".

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Un farmaco già in uso per altre patologie ha mostrato effetti neuroprotettivi in uno studiopreclinico sulla Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), condotto presso Fondazione Santa Lucia IRCCSdi Roma, in collaborazione con l’Istituto di farmacologia traslazionale del Cnr e grazie ad unfinanziamento di Fondazione AriSLA. Il lavoro è pubblicato su British Journal of Pharmacology.

Uno studio italiano ha individuato un nuovo potenziale bersaglio terapeutico, evidenziando l’efficacia di un farmaco in un modello preclinico di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) nel rallentare la progressione della neurodegenerazione e nell’aumentare la sopravvivenza dei modelli murini. La Sla è una malattia neurodegenerativa grave dell’età adulta, progressivamente invalidante, dovuta alla compromissione dei motoneuroni (le cellule responsabili della contrazione dei muscoli volontari) spinali, bulbari e corticali, che conduce alla paralisi dei muscoli volontari fino a coinvolgere anche quelli respiratori. Una parte rilevante dei pazienti affetti da Sla mostra un dispendio energetico aumentato, ovvero una condizione in cui viene utilizzata più energia di quella necessaria. Questa alterazione, detta ipermetabolismo, insieme ad una diminuzione dell’indice di massa corporea è in genere correlata con una prognosi peggiore della malattia.


Il gruppo di ricerca, coordinato da Alberto Ferri e Cristiana Valle della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma e dell’Istituto di farmacologia traslazionale del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ift), ha dimostrato che i meccanismi molecolari alla base delle disfunzioni metaboliche correlate con la Sla possono essere normalizzati da un farmaco, la Trimetazidina, suggerendo che questo approccio possa contribuire a rallentare il decorso della malattia. Il farmaco, già in uso per altre patologie, è stato sperimentato su un modello murino di Sla dove ha agito ripristinando il corretto bilancio energetico cellulare e ostacolando lo sviluppo di processi infiammatori e neurodegenerativi, sia nel midollo spinale che nel nervo periferico.

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I ricercatori dell’Università Statale di Milano, dopo aver osservato una diminuzione dei lipidi nei pazienti ricoverati per Covid-19, identificano 2 lipidi che potrebbero rappresentare dei marcatori candidati per monitorare la progressione e la gravità della malattia. Lo studio pubblicato su Scientific Report.
Da quando COVID-19, la malattia causata dal virus Sars-CoV-2, normalmente conosciuto come Coronavirus, è stata dichiarata pandemica, tutta la comunità scientifica si è mobilitata non solo per individuare una cura all’infezione, ma anche per definire dei possibili marcatori, ovvero molecole che segnano in anticipo la prognosi del paziente. È infatti importante poter predire, già al momento del ricovero, se il paziente deve essere trattato in modo aggressivo oppure può essere soggetto a trattamenti più blandi. Questo studio si è proposto di individuare dei marcatori in grado di predire se il paziente è destinato ad aggravarsi o, in altre parole, in grado di correlarsi con la gravità dell’infezione e con la prognosi.

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