Febbraio 2019


Il risultato, pubblicato sulla rivista Cell Reports, rivela che specifici RNA sono coinvolti nella Fragile X Tremor Ataxia Syndrome, malattia degenerativa che colpisce il sistema nervoso. Lo studio condotto da ricercatori della Sapienza e del Centre for Genetic Regulation di Barcellona, può migliorare la nostra comprensione di malattie complesse fornendo speranze per nuove cure.
Gravi malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer e la SLA, sono associate ad aggregati tossici di proteine che impediscono il corretto funzionamento delle cellule cerebrali. Una nuova ricerca mette in luce il ruolo in questo processo di “ammassamento” proteico nocivo delle molecole di acido nucleico come l’RNA.

Lo studio, realizzato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, in collaborazione con il Centre for Genetic Regulation di Barcellona, ha svelato, con modelli teorici ed esperimenti in laboratorio, il ruolo di uno specifico RNA in una malattia neurodegenerativa chiamata Fragile X Tremor Ataxia Syndrome, o FXTAS, caratterizzata da un tremolio intenzionale e ataxia (movimenti scoordinati). I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Cell Reports.

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Prima dell’accoppiamento sembra si corteggino per giorni e che al risveglio si salutino con una ‘danza’. Sono i cavallucci marini, quelle 54 specie di piccoli pesci che vivono in acque basse, che da sempre ispirano curiosità per la loro buffa forma e hanno molto da insegnare su amore e “vita di coppia”.


Per questo, a San Valentino, il WWF ha deciso di raccontare qualcosa in più su questo curioso animale.

I cavallucci marini si nutrono di piccoli crostacei che galleggiano nell’acqua o strisciano sul fondo, catturati grazie alla loro capacità di mimetizzarsi e a un’enorme pazienza. Ogni volta che ingeriscono qualcosa producono un “click”, lo stesso suono che si ascolta quando interagiscono fra loro. Al sorgere del sole, la coppia di cavallucci marini si dà il buongiorno con una “danza nuziale” di circa 6 minuti: un rituale mattutino utile per riallacciare i rapporti con il compagno. Il maschio e la femmina, mentre danzano, cambiano colore passando da un arancione sbiadito a uno brillante e spesso si attaccano con la coda agli steli delle alghe, che offrono riparo. Quando il maschio è pronto, i cavallucci si accoppiano, ma è la femmina a depositare fino a 1.500 uova nella sacca del maschio, che le cova dai 9 ai 45 giorni e partorisce i piccoli in acqua.

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La ricerca condotta da vulcanologi e archeologi delle Università di Pisa e Modena-Reggio Emilia è stata pubblicata sulla rivista Scientific Reports

L’isola di Stromboli nell’arcipelago delle Eolie è stata l’origine di tre grandi tsunami che hanno flagellato il Mediterraneo in epoca Medievale, uno dei quali ebbe come testimone d’eccezione anche il poeta Francesco Petrarca. La scoperta arriva da uno studio pubblicato sulla rivista “Scientific Reports” e condotto da una equipe di ricercatori delle Università di Pisa e Modena-Reggio Emilia a cui hanno collaborato l’Università di Urbino, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Pisa (INGV), il CNR, la City University of New York e l’American Numismatic Society.


La ricerca ha rivelato che gli tsunami furono prodotti da crolli improvvisi del fianco nord-occidentale del vulcano di Stromboli e che si abbatterono sulle coste campane fra la metà del Trecento e del Quattrocento come testimoniano le cronache dell’epoca. Il principale dei tre eventi, avvenuto nel 1343, è infatti quasi certamente riconducibile alla grave devastazione dei porti di Napoli ed Amalfi di cui fu testimone Francesco Petrarca che si trovava nella città partenopea come ambasciatore di Papa Clemente VI e che racconta in una lettera di una misteriosa quanto violenta tempesta che il 25 novembre provocò moltissime vittime e l’affondamento di numerose navi.
L’identificazione di Stromboli come la sorgente di questi terribili tsunami è stata possibile grazie ad un lavoro interdisciplinare realizzato da vulcanologi e archeologi e portato avanti per l’Università di Pisa dal professore Mauro Rosi e dal dottor Marco Pistolesi del Dipartimento di Scienze della Terra.

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Lo studio dell’Università di Pisa e del National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases statunitense è il primo ad individuare il rischio in un’età così precoce. Per l’Ateneo pisano ha partecipato Paolo Piaggi, “cervello di ritorno” vincitore del programma "Rita Levi Montalcini"

Le persone a rischio obesità si possono individuare già a 10 anni, sono i bambini che per predisposizione genetica hanno un metabolismo “risparmiatore”. Per la prima volta uno studio italo-statunitense dell’Università di Pisa e del National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases del Maryland ha individuato il rischio in una età così precoce correlando la misura del metabolismo basale e l’aumento di peso durante l’adolescenza. La ricerca è stata condotta per l’Ateneo pisano dall’ingegnere biomedico Paolo Piaggi, ora al dipartimento del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dopo aver vinto nel 2015 il programma "Rita Levi Montalcini", un progetto del Miur per far rientrare in Italia i giovani ricercatori che lavorano all’estero.


“Il risultato importante di questa ricerca è la dimostrazione che alcuni bambini hanno un ridotto metabolismo il che è probabilmente dovuto ad una predisposizione genetica, hanno cioè un genotipo metabolico “risparmiatore” – spiega Paolo Piaggi - i bambini con questo profilo metabolico dovrebbero essere quindi individuati prima possibile in modo da prevenire l’insorgenza di sovrappeso e obesità nell’età adulta, con tutte le complicanze che questa condizione comporta come ad esempio, il diabete o i rischi cardiovascolari”.

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Venerdì, 08 Febbraio 2019 08:31

L’essere vivente più grande al mondo

 

L’essere vivente più grande della Terra si trova in Oregon, negli Stati Uniti. Nonostante le supposizioni che starete già facendo non è né un animale né una pianta.

Immaginate di trovarvi immersi nella natura. State attraversando la foresta nazionale del Malheur che si estende per più di 5000 chilometri quadrati ed è parte integrante della catena orogenetica delle Blue Mountains che si trovano ad Est dell’Oregon. Mentre passeggiate i vostri piedi si posano su una estesa prateria, passo dopo passo siete circondati da magnifici esemplari di conifere come pini, ginepri e abeti. Le piante vi accompagnano lungo tutto il percorso. Arrivate ad uno scorcio dove gli alberi si diradano per fare spazio ad un lago e di fronte a voi si innalza per 2750 metri il picco più alto delle Strawberry Mountains.

Siete certi che questa sia la più grande sorpresa che la foresta ha in serbo per voi?

Non potete di certo immaginare che sotto ai vostri piedi, invisibile da ogni sguardo, si trova l’essere vivente più grande del mondo: un esemplare di Armillaria ostoyae, un fungo della divisione dei Basidiomycota, che si estende lungo il suolo della foresta per ben 8,9 chilometri quadrati.

Ma dov’è il fungo?

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Ben 36 dei 39 campioni di sale da cucina analizzati, provenienti da diverse nazioni inclusa l’Italia, contenevano frammenti di plastica inferiori ai 5 millimetri, meglio noti come microplastiche. Lo rivela una recente ricerca scientifica, pubblicata sulla rivista internazionale Environmental Science & Technology nata dalla collaborazione tra Greenpeace e l’Università di Incheon in Corea del Sud. Dall’indagine, che ha preso in esame campioni di sale marino, di miniera e di lago, risulta che 36 campioni erano contaminati da microplastica costituita da Polietilene, Polipropilene e Polietilene Tereftalato (PET), ovvero le tipologie di plastica più comunemente utilizzate per produrre imballaggi usa e getta.

«Numerosi studi hanno già dimostrato la presenza di plastica in pesci e frutti di mare, acqua di rubinetto e adesso anche nel sale da cucina. Questa ricerca conferma la gravità dell’inquinamento da plastica e come per noi sia ormai impossibile sfuggire a tale contaminazione» dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. «È necessario fermare l’inquinamento alla radice ed è fondamentale che le grandi aziende facciano la loro parte riducendo drasticamente l’impiego della plastica usa e getta per confezionare i loro prodotti», conclude.

Questa ricerca, la prima condotta su vasta scala e tale da permettere un’analisi comparata della presenza di microplastiche in campioni di sale da cucina provenienti da numerose aree geografiche, ha consentito anche di correlare i livelli di inquinamento riscontrati nel sale con l’immissione e il rilascio di plastica nell’ambiente. Infatti, di tutti i campioni analizzati quelli provenienti dall’Asia hanno registrato i livelli medi di contaminazione più elevati con picchi fino a 13 mila microplastiche in un campione proveniente dall’Indonesia che, secondo studi recenti, è seconda per l’apporto globale di plastica nei mari.

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Il cuore dell’impianto per la separazione e purificazione del biogas con le membrane

 

Un team di ricerca dell’Istituto per la tecnologia delle membrane del Cnr ha dimostrato per la prima volta che da rifiuti organici si può ottenere in un unico processo, metano come fonte di energia rinnovabile e anidride carbonica in forma pura per uso industriale ed alimentare. Lo studio è stato pubblicato su Energy & Environmental Science e la tecnologia oggi è già applicata in un impianto in Lombardia, primo del suo genere in Europa

 

Grazie a un progetto italiano da oggi è possibile ottenere dai rifiuti organici in un unico processo metano come fonte di energia rinnovabile e CO2 in forma pura per uso industriale ed alimentare. A dimostrarlo è un team di ricercatori dell’Istituto per la tecnologia delle membrane del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Itm) di Rende (Cs), in collaborazione con l’azienda Tecno Project Industriale S.r.l, che ha descritto il metodo sulla rivista Energy & Environmental Science.

“Ridurre i gas serra in atmosfera è una delle sfide più importanti nella lotta contro il riscaldamento globale”, spiega John Jansen, responsabile del gruppo di ricerca sulle membrane polimeriche per la separazione di gas del Cnr-Itm. “Le possibilità per realizzare questo obiettivo sono fondamentalmente due: l’utilizzo di energia rinnovabile per sostituire quella prodotta con i combustibili fossili, e il recupero e successivo stoccaggio o riutilizzo della CO2, il principale gas serra prodotto dalle attività umane. Finora non era mai stato realizzato contemporaneamente in un unico processo, obiettivo invece raggiunto con la collaborazione tra Cnr e Tecno Project Industriale. Nel processo, rifiuti organici vengono convertiti in biogas come fonte di energia rinnovabile. Allo stesso tempo, membrane – una sorta di filtri estremamente fini – separano e purificano l’anidride carbonica per successivo utilizzo”.

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Nella giornata nazionale per la Prevenzione dello spreco alimentare,

ISPRA pubblica uno studio sul tema

 

 La principale causa di spreco alimentare è la sovrapproduzione di eccedenze; ad ogni incremento di fabbisogno, corrisponde un aumento maggiore di offerte e consumi, innescando la crescita dello spreco (+3,2% ogni anno). A questo, si associa l’aumento delle disuguaglianze (anche in Italia): nel mondo, 815 milioni di persone soffrono la fame e 2 miliardi la malnutrizione, mentre vi sono quasi 2 miliardi di persone in sovrappeso. In Italia, per ristabilire condizioni di sicurezza alimentare, gli sprechi complessivi dovrebbero essere ridotti di almeno il 25% degli attuali.

Lo spreco alimentare genera effetti socio-economici e ambientali molto significativi. Ad esso sono infatti associate emissioni di gas-serra per circa 3,3 miliardi di tonnellate (Gt) di anidride carbonica (CO2), pari a oltre il 7% delle emissioni totali (nel 2016 pari a 51.9 miliardi di tonnellate di CO2). Se fosse una nazione, lo spreco alimentare sarebbe al terzo posto dopo Cina e USA nella classifica degli Stati emettitori.

 

In occasione della Giornata nazionale per la Prevenzione dello spreco alimentare, ISPRA pubblica il rapporto “Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali”. Il Rapporto è frutto di due anni di valutazione e analisi dei più recenti dati scientifici e informazioni della letteratura internazionale, che ci indicano come nel mondo lo spreco sia in aumento. La prevenzione e la riduzione dello spreco di alimenti sono considerate dalle Nazioni Unite e dalle altre istituzioni internazionali tra le principali strade da percorrere per la tutela dell'ambiente e il benessere sociale. Lo spreco alimentare è infatti tra le maggiori cause della crisi ecologica, per l’alterazione dei processi geologici, biologici e fisici, tra cui il ciclo del carbonio, dell’acqua, dell’azoto e del fosforo.

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Quando il sovrappeso è eccessivo e bisogna perdere molti chili, dieta, attività fisica, psicoterapia e farmaci potrebbero non bastare. L’unica soluzione efficace diventa la chirurgia bariatrica, cioè un gruppo di interventi che permettono di ridurre il grave eccesso di peso in modo veloce, progressivo e soprattutto stabile. L’obesità è una condizione patologica cronica, evolutiva e recidivante, a patogenesi complessa, che consiste in un'alterazione della composizione del corpo (eccesso assoluto e relativo di grasso), che peggiora la qualità della vita e provoca complicazioni che possono portare ad una morte prematura. Si tratta di uno dei principali problemi di salute pubblica nel mondo. Nel 1997, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha riconosciuto ufficialmente l'obesità come un'epidemia globale.

Secondo l’International Obesity Task Force (IOTF), in Europa, il 50% della popolazione è sovrappeso (circa il 20% degli uomini e il 25% delle donne sono obesi). Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), in Italia gli obesi sono aumentati del 25% dal 1994 al 2008. Più di un terzo della popolazione adulta (35,6%) è in sovrappeso, mentre una persona su dieci è obesa (10,4%).

 

L'eccesso di peso è più diffuso tra gli uomini rispetto alle donne (sovrappeso: 44,2% vs 27,6%; obesità: 11,3% vs 9,5%) nelle fascia sociale media e in difficoltà economiche. L’Italia, purtroppo, detiene il primato negativo europeo per sovrappeso ed obesità in età infantile/adolescenziale, rispettivamente del 36% e del 15%. La principale causa dell’obesità è l’eccessiva assunzione di cibo altamente energetico per errate abitudini alimentari o per disturbi del comportamento alimentare. L'impatto di fattori genetici, endocrini e metabolici è ritenuto sostanzialmente trascurabile (0,3 - 0,4% delle obesità). Il chirurgo dell'obesità, insieme al paziente, ha la possibilità di scegliere tra varie soluzioni, quella più adatta al singolo caso. La scelta dipende dall'età, dalle aspettative, dalle abitudini e dagli stili di vita.

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Un team di ricercatori della Sapienza e dell’Università di Bologna ha identificato il substrato cerebrale del sogno nelle persone affette da narcolessia. I risultati della ricerca, che confermano per la prima volta sperimentalmente la sovrapponibilità dei meccanismi cerebrali del sogno in fase Non-REM e REM, sono pubblicati sulla rivista Annals of Clinical and Translational Neurology

A volte una patologia può fornire una possibilità unica di studio del funzionamento cerebrale. È il caso della Narcolessia con cataplessia - Narcolessia di Tipo 1 - una condizione invalidante causata dalla riduzione di ipocretina-1, un neurotrasmettitore importante nella regolazione del ritmo sonno-veglia, nonché dei neuroni che lo rilasciano. La possibilità di osservare le basi neurali del sogno in pazienti affetti da eccessiva sonnolenza diurna ha consentito al team di ricercatori del Dipartimento di Psicologia della Sapienza e dell’Università di Bologna, insieme a ricercatori dell’Università dell’Aquila e dell’Istituto IRCCS delle Scienze neurologiche di Bologna, di svelare il misterioso meccanismo dell’esperienza onirica e in particolare della sua prima fase, quella Non-REM. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista Annals of Clinical and Translational Neurology.

“Le peculiarità del sonno dei pazienti con narcolessia – spiega Luigi De Gennaro della Sapienza – hanno permesso di chiarire, una volta per tutte, che l’esperienza del sogno non è limitata alla sola fase REM, ma si presenta con caratteristiche in massima parte sovrapponibili anche nella fasi Non-REM del sonno”. Su un campione di 238 pazienti reclutati presso il Dipartimento Scienze biomediche e neuromotorie dell’Università di Bologna, i ricercatori ne hanno selezionati 43 con diagnosi di narcolessia di tipo 1, poi sottoposti al Multiple Sleep Latency Test (MSLT), il test clinico standard per la valutazione dell’eccessiva sonnolenza.

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