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IL 26 MARZO TORNA EARTH HOUR

11 Mar 2022 Scritto da

 

Un'ora a luci spente per un futuro più giusto e sostenibile: l'evento globale del WWF manda un messaggio per le persone, il clima e la natura.

Sabato 26 marzo torna Earth Hour, l’Ora della Terra, l’iniziativa globale del WWF che da sempre invita le persone a mobilitarsi per un futuro più sicuro, giusto e sostenibile per tutti. Anche quest’anno, alle 20,30 locali, in tutti i Paesi del mondo si spegneranno le luci: un gesto simbolico per chiamare all’azione nei confronti dell’emergenza climatica e della perdita di natura.

Earth Hour, arrivata alla sua quattordicesima edizione, rappresenta da sempre una mobilitazione che unisce milioni di persone da tutto il mondo in un’unica voce per proteggere il clima e la natura e che oggi, nel difficile momento storico in cui viviamo, acquista ancora maggior forza lanciando un messaggio globale per costruire un futuro di armonia fra gli uomini e con la natura.
Quello appena passato è stato un anno allarmante per il clima: gli eventi estremi e le anomalie si sono moltiplicate, giungendo a nuovi record come quello registrato in Canada in estate, con quasi 50°C in alcune località della British Columbia, dopo che l’ONU ha confermato che nel 2020 si sono raggiunti i 38°C in Siberia. La crisi climatica è adesso e sta causando impatti diffusi e sempre più forti.


Il cambiamento climatico modifica i delicati ecosistemi lacustri artici. Una ricerca di Sapienza e Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) alle Isole Svalbard studia i cambiamenti in corso. I risultati sono pubblicati su Scientific Reports
Uno nuovo studio coordinato dal gruppo di Ecologia trofica del Dipartimento di biologia ambientale della Sapienza fa luce sulle relazioni che legano il clima al funzionamento dei delicati ecosistemi lacustri artici, considerati hotspot di biodiversità e sink di carbonio alle più elevate latitudini.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Scientific Reports, fortemente interdisciplinare, è stata realizzata in collaborazione con l’Istituto di scienze polari e l’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr, combinando l’analisi elementare e degli isotopi stabili di campioni animali e vegetali con l’analisi di immagini satellitari e la ricostruzione dell’idrodinamica di 18 laghi in 3D alle Isole Svalbard.


Lo studio dell’Università di Pisa pubblicato sul Marine Pollution Bulletin


Quarantadue specie aliene, con popolazioni anche numericamente consistenti, sono state ritrovate nei porti di Livorno, Bastia e Olbia, si tratta soprattutto di crostacei, vermi policheti, molluschi e altri invertebrati. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Marine Pollution Bulletin che per la prima volta ha anche valutato quali delle zone interne alle aree portuali siano più soggette alle bioinvasioni.

“Le bioinvasioni rappresentano ad oggi una delle principali problematiche ecologiche che interessano gli ecosistemi marini, specialmente nel Mediterraneo – spiega Alberto Castelli, professore ordinario del Dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano - lo studio degli ambienti portuali riveste quindi un particolare interesse proprio perché si tratta di aree particolarmente suscettibili alle bioinvasioni dove le specie aliene, volontariamente o accidentalmente introdotte dall’uomo, costituiscono un rischio per la biodiversità locale”.

 

L’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente ha annunciato oggi di avere adottato una risoluzione che darà avvio, entro la fine dell’anno, ai negoziati per un trattato globale sulla plastica legalmente vincolante e che affronti l’intero ciclo di vita di questo materiale.

Giuseppe Ungherese, responsabile della Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, dichiara: «Oggi i leader globali seduti al tavolo dei negoziati di Nairobi hanno ascoltato le voci di milioni di persone che in tutto il mondo chiedono di porre fine alla crisi ambientale dovuta all’inquinamento da plastica. La risoluzione adottata oggi riconosce che l’intero ciclo di vita della plastica, dall’estrazione dei combustibili fossili necessari a produrla fino allo smaltimento, crea impatti notevoli per le persone e per il pianeta. Questo è un grande passo avanti che manterrà elevata la pressione sulle aziende dei combustibili fossili e sulle multinazionali che impiegano enormi quantità di imballaggi usa e getta, affinché riducano subito il loro impatto ambientale e trasformino radicalmente i loro modelli di business in favore di soluzioni basate sullo sfuso e sulla ricarica.


La diffusione in ambiente di farmaci e pesticidi ha raggiunto livelli tali da determinarne la presenza anche negli uccelli marini. Lo rivela una ricerca condotta da Marco Picone, ricercatore dell’Università Ca’ Foscari Venezia, su due specie che nidificano nella Laguna di Venezia, la sterna ‘beccapesci’ (Thalasseus sandvicensis) e il gabbiano corallino (Ichthyaetus melanocephalus). Come predatori apicali nella rete trofica acquatica, sono ‘sentinelle’ del loro habitat e forniscono indicazioni indirette sulla presenza dei farmaci nei tessuti delle loro prede e nell’ambiente.

L’analisi sulle piume prelevate dai pulli di questi uccelli marini non ha lasciato spazio a dubbi: l’87% dei 47 campioni analizzati conteneva il principio attivo diclofenac, un antinfiammatorio non-steroideo, ma sono stati rilevati anche ibuprofene, nimesulide, naprossene e gli antidepressivi citalopram, fluvoxamina e sertralina. Inoltre, il 91% dei campioni contenevano tracce quantificabili di neonicotinoidi, una classe di pesticidi chimicamente simili alla nicotina.

 

Da decenni la foca monaca, tra i pinnipedi più rari al mondo e l’unico presente nel Mar Mediterraneo, era considerata estinta nelle acque dei mari italiani, fino ai recenti avvistamenti nel Mar Tirreno e Ionio, che hanno fatto ipotizzare un suo ritorno. Per mapparne la presenza, i ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca hanno realizzato un metodo di rilevazione innovativo e non invasivo, basato sul recupero e analisi del DNA ambientale (eDNA) dai campioni di acqua prelevati nel Mare Nostrum. I primi test e i risultati delle azioni di monitoraggio hanno dato riscontro positivo, anticipando alcune delle recenti segnalazioni del mammifero marino al largo delle coste toscane e siciliane, in tratti di mare poco frequentati.

Il metodo è stato descritto in un articolo dal titolo “A species-specific qPCR assay provides novel insight into range expansion of the Mediterranean monk seal (Monachus monachus) by means of eDNA analysis”, appena pubblicato dalla rivista scientifica “Biodiversity and Conservation” . Prima autrice Elena Valsecchi, ecologa molecolare del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca e docente di Marine Vertebrate Zoology.

 

Il governo olandese ha reso noti i suoi piani per dimezzare le emissioni di azoto nazionali entro il 2030, anche attraverso la riduzione del 30% dei capi allevati. Si tratta del primo Paese in Europa a prendere questa strada, che il mondo scientifico indica ormai da tempo, avvertendo che le soluzioni tecnologiche non sono sufficienti a ridurre gli impatti del settore zootecnico, se non si interviene anche sul numero e sulla densità degli animali allevati. L’accordo non lascerà soli gli allevatori: sono stati stanziati 25 miliardi di euro per accompagnare questa transizione.

In Olanda per decenni gli alti livelli di emissioni e di carichi di azoto, dovuti principalmente alla zootecnia, hanno progressivamente deteriorato gli habitat naturali più vulnerabili. A maggio 2021 Greenpeace Olanda aveva inviato al governo una lettera di messa in mora per il mancato rispetto della Direttiva Habitat (articolo 6 paragrafo 2), che impone agli Stati membri di adottare misure appropriate per arrestare il deterioramento degli habitat naturali. La messa in mora era stata accompagnata da un dettagliato rapporto in cui si dimostrava che gli habitat naturali più vulnerabili erano già gravemente compromessi a causa degli elevati livelli di azoto e che serviva un drastico cambio di rotta.

Un gruppo di studiosi dell’Università di Bologna ha analizzato la distribuzione del declino delle acque rispetto alla distanza dai grandi centri abitati, ideando un modello che potrebbe rivelarsi utile per mitigare gli impatti dell’urbanizzazione sull’ecosistema.

La riduzione delle risorse idriche superficiali – ad esempio le acque dei fiumi e laghi – è più rapida e marcata vicino ai centri urbani e diminuisce man mano che ci si allontana dalle città. Analizzando oltre trent’anni di immagini satellitari del territorio degli Stati Uniti, un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna ha non solo rilevato e ricostruito questo
fenomeno, ma ha anche realizzato un modello capace di riprodurre la distribuzione del declino delle acque rispetto alla distanza dai grandi centri abitati. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista AGU Advances. “Entro il 2050 circa il 70% della popolazione mondiale sarà concentrato nelle città: un fenomeno che avrà grossi impatti sulla quantità e qualità delle acque di superficie, e in particolare dei fiumi, attorno ai centri abitati”, spiega Irene Palazzoli, dottoranda al Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali dell’Università di Bologna, prima autrice dello studio. “Per questo, i risultati del nostro lavoro possono rivelarsi fondamentali per definire strategie di gestione delle acque che permettano di mitigare gli impatti dell’urbanizzazione sull’ecosistema”.

 

Coca-Cola ha annunciato che renderà riutilizzabile il 25% degli imballaggi per bevande entro il 2030. Dopo anni di campagna contro il monouso, Greenpeace accoglie con soddisfazione l’annuncio di Coca-Cola. Tuttavia, secondo l’organizzazione ambientalista è necessario andare oltre e arrivare all’obiettivo del 50% di packaging ricaricabile e riutilizzabile entro il 2030. Un traguardo indispensabile per un’azienda che ogni anno produce oltre 120 miliardi di bottiglie di plastica.

Secondo i monitoraggi dei rifiuti di plastica che invadono città, coste, mari e ogni angolo del pianeta realizzati in tutto il mondo dalla coalizione Break Free From Plastic, di cui Greenpeace fa parte, i rifiuti riconducibili a Coca-Cola sono i più abbondanti e hanno posto l’azienda americana al vertice di questa triste classifica per quattro anni consecutivi.

 

L’INQUINAMENTO DEGLI OCEANI SARÀ 4 VOLTE MAGGIORE ENTRO IL 2050

IN MOLTE AREE, TRA CUI IL MAR MEDITERRANEO, È GIÀ STATA SUPERATA LA SOGLIA MASSIMA DI INQUINAMENTO PERICOLOSO DA MICROPLASTICHE

 


L’appello in vista della prossima Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente – UNEA (28 febbraio-2 marzo) perché si adotti finalmente un Trattato globale legalmente vincolante
Un nuovo report del WWF analizza oltre 2.590 studi sull’inquinamento da plastica negli oceani e fornisce l’analisi completa degli impatti che sta causando sulle specie e sugli ecosistemi marini: una vera e propria crisi planetaria, secondo la definizione data dalle Nazioni Unite.

Secondo il report è probabile che la crescita prevista dell’inquinamento da plastica comporterà in molte aree rischi ecologici significativi che indeboliranno gli attuali sforzi per proteggere e aumentare la biodiversità, se non si interverrà ora per ridurre la produzione e l’uso della plastica a livello globale. Basti pensare che la massa (in peso) di tutta la plastica presente sul Pianeta è il doppio della biomassa totale degli animali terrestri e marini messi insieme!

 

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