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L’acidità del limone, il rosso della ciliegia, la porosità di un fungo: aspetto, colore, forma, aroma, sapore e consistenza sono tutte proprietà organolettiche, determinate dalla composizione molecolare, che caratterizzano gli alimenti e che ne determinano il gusto e, di conseguenza, il buon sapore o meno che se ne può percepire. Fin dal principio, nella storia dell’evoluzione umana, il gusto ha guidato l’uomo a capire di cosa nutrirsi, a distinguere gli alimenti salutari da quelli velenosi o nocivi: un processo che sembra scontato ma che, all’interno del corpo umano, avviene attraverso una cascata di processi che attivano diversi organi, a partire dai recettori situati sulla lingua che elaborano informazioni fino ad arrivare al cervello: e proprio questo processo che il progetto VIRTUOUS - “Virtual tongue to predIct the oRganoleptic profile of mediterranean IngredienTs and their effect on hUman hOmeostasis by means of an integrated compUtational multiphysicS platform” vuole replicare in modo da riuscire a predire le proprietà organolettiche di un dato alimento, che avranno effetto sull’organismo umano, partendo dalla composizione chimica unica per ogni prodotto.

 


È stata progettata nei laboratori del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa e può ingrandire fino a 100 volte


È una piccola lente adesiva in materiale siliconico e, se fatta aderire alla camera di uno smartphone, può funzionare come un microscopio ingrandendo fino a 100 volte. Progettata nei laboratori del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa, questa lente è il frutto di uno studio realizzato dagli scienziati pisani in collaborazione con l’Università della California S. Diego apparso su Advanced Functional Materials che introduce un deciso cambio di paradigma: i ricercatori hanno sfruttato le proprietà di cristalli fotonici in silicio nanostrutturato, che fungono da filtri ottici, per costruire un dispositivo in cui lente e filtro diventano una cosa sola.
“Nella nostra società c’è una crescente richiesta di strumenti analitici semplici, rapidi e affidabili, per esempio per valutare rapidamente la presenza di batteri in cibi o su ferite – afferma Giuseppe Barillaro, docente di elettronica al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa – Non sempre è possibile farlo in laboratorio con un microscopio, che ha costi elevati ed è difficile da trasportare. Il nostro sistema permette di compiere la stessa operazione ovunque, e al costo di un centesimo. Questo grazie a un cambiamento radicale nel modo di pensare e progettare dispositivi ottici”.

 

Un team internazionale di ricerca guidato dal Cnr-Iliesi, attraverso l’hyperspectral imaging, nuova tecnologia non invasiva, ha svelato i testi scritti sul verso della Storia dell’Accademia di Filodemo, uno dei papiri di Ercolano carbonizzati durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Il risultato, pubblicato in Science Advances, apre un importante scenario sullo studio dei celebri rotoli.


Leggere i papiri di Ercolano carbonizzati dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.: un’impresa oggi possibile grazie a tecnologie non invasive messe a sistema da un team internazionale coordinato da Graziano Ranocchia dell’Istituto per il lessico intellettuale europeo e storia delle idee del Consiglio nazionale delle ricerche. Il gruppo di lavoro è infatti approdato alla decifrazione del testo greco nascosto sul verso della celebre Storia dell’Accademia (PHerc. 1691/1021) di Filodemo di Gadara (110-40 a.C.), uno dei tanti rotoli conservati dalle ceneri del Vesuvio, nonché parte di un’opera più ampia intitolata Rassegna dei Filosofi, la più antica storia della filosofia greca in nostro possesso.
Tale ricerca, pubblicata in Science Advances, è frutto della sinergia di competenze e discipline differenti ed è stata condotta da personale di Iliesi e Nanotec del Cnr, del Cnrs/Museo di Storia Naturale di Parigi e Dipartimento di fisica della ‘Sapienza’ di Roma.

 
 
 
Il completo recupero delle sensazioni della mano dopo l'amputazione grazie a un arto bionico capace di comunicare col cervello, di inviare e ricevere impulsi. È oggi possibile grazie ai progressi della ricerca italiana, in particolare da due studi che sono stati presentati all'Accademia dei Lincei di Roma, durante un convegno al quale ha preso parte anche il ministro della Sanita', Giulia Grillo, assieme ai protagonisti delle innovazioni e ai pazienti che hanno partecipato alle sperimentazioni.

Il primo, condotto dalla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa con l'Istituto di Bio Robotica e della Fondazione Policlinico Universitario Gemelli Irccs, Universita' Cattolica, si serve di una mano bionica di nuova generazione e permette di percepire l'ambiente esterno attraverso un feedback sensoriale e tattile. Il secondo e' un lavoro coordinato dagli ingegneri dell'Universita' Campus Bio-Medico di Roma, in collaborazione col Centro Protesi Inail, e permette di usare le protesi in maniera piu' naturale, restituendo la capacita' di sentire se si sta perdendo il contatto con un oggetto afferrato e di calibrare la forza di presa delle dita robotiche. Entrambe le ricerche sono state pubblicate sulla rivista "Science Robotics", a coronamento di dieci anni di esperienza scientifica sulla mano robotica e del primato dell'Italia in questo campo.

"Nel nostro studio- spiega il professor Silvestro Micera della Scuola Superiore Sant'Anna- abbiamo dimostrato che la sostituzione sensoriale basata sulla 'stimolazione intraneurale' e' in grado di fornire un feedback propriocettivo in tempo reale e in combinazione con un feedback tattile sensoriale. Il cervello riesce facilmente a combinare le informazioni in maniera efficace ed i pazienti riescono ad utilizzarle in tempo reale con ottime prestazioni". Con la stimolazione intraneurale il normale flusso di informazioni che giungono dall'esterno viene ripristinato tramite impulsi elettrici inviati da elettrodi inseriti direttamente nei nervi dell'arto superiore amputato; il paziente dopo un apposito training impara progressivamente a tradurre questi impulsi in sensazioni di natura tattile e/o propriocettiva.
Questo approccio ha permesso a due soggetti amputati di riguadagnare un'elevata 'acuita' propriocettiva', con risultati paragonabili a quelli ottenuti in soggetti sani. La simultanea presenza di un feedback propriocettivo e di uno tattile ha consentito ad entrambi gli amputati di discriminare le dimensioni e la forma di quattro oggetti con un importante livello di accuratezza (75,5%).

Dai sottoprodotti e dagli scarti delle bioraffinerie, a composti da utilizzare nell’industria cosmetica e alimentare: il progetto EXCornsEED, coordinato da Sapienza, ha appena ricevuto un finanziamento di oltre 4,2 milioni di euro da parte della BBI (Bio-Based Industries Joint Undertaking) Si chiama EXCornsEED ed è coordinato da Sapienza. È il nuovo progetto che include 13 partner provenienti da 8 paesi europei, appena finanziato con oltre 4,2 milioni di euro dalla BBI (Bio-Based Industries Joint Undertaking), il partenariato pubblico-privato, con protagonisti la Commissione europea e le principali industrie europee legate alla bioeconomia.
Per tre anni e mezzo – questa la durata complessiva prevista – una task force di competenze scientifiche collaborerà con imprese già attive nel settore, mettendo a punto tecniche ad hoc per recuperare gli scarti generati dalla lavorazione delle bioraffinerie. L’attività dei ricercatori si concentrerà sugli impianti dedicati alla produzione di biocombustibili, una filiera che parte da varie fonti rinnovabili, tra cui il mais e la colza, per la produzione di biodiesel e bioetanolo, lasciando resti ricchi di composti di potenziale valore. Qui si inseriscono le nuove tecnologie e le procedure di frazionamento che consentiranno di ricavare diversi composti da inserire nel ciclo produttivo delle industrie cosmetiche e alimentari, mettendo a frutto quanto altrimenti destinato ad essere impiegato – in modo assai poco redditizio – come concime.

L’Università di Pisa partner di uno studio internazionale pubblicato sulla rivista “GigaScience” sui meccanismi genetici che danno origine alle fragole

 

È l’espressione “più potente” di un set di geni a determinare lo sviluppo delle fragole. La scoperta arriva da una ricerca di un team internazionale che ha indentificato per la prima volta i meccanismi genetici che sono che sono alla base dello sviluppo di questo “falso frutto” primaverile. Pubblicato sulla rivista “GigaScience” e coordinato dal centro di ricerca inglese Driscoll’s Genetics Limited, lo studio è stato realizzato dai genetisti e bioinformatici dell’Ateneo pisano del gruppo del professore Andrea Cavallini insieme ai ricercatori delle università di Modena, Milano, Padova e della Fondazione Mach di San Michele all'Adige.
“Abbiamo confrontato il genoma della fragola e quello di una specie vicina, Potentilla micrantha, che non produce i tipici frutti carnosi della specie coltivata – spiega Andrea Cavallini dell’Università di Pisa – questo ci ha consentito di identificare i meccanismi genetici che sono potenzialmente alla base dello sviluppo delle fragole, in realtà un falso frutto, prodotto dall'accrescimento del ricettacolo della infiorescenza”.
La specie Potentilla micrantha, conosciuta anche come “fragola secca” o “cinquefoglia” condivide infatti numerose caratteristiche morfologiche ed ecologiche con la fragola e queste somiglianze hanno spinto i ricercatori a realizzare uno studio di genomica comparata, sequenziando, per la prima volta, il genoma e il trascrittoma di Potentilla.
“Come emerge dalla ricerca, lo sviluppo delle fragole – continua Cavallini – sembra essere legato alla diversa espressione di alcuni specifici geni, che codificano delle proteine del tipo ‘MADS-box’, molto più attivi nella fragola e che sono già noti per essere implicati nello sviluppo del frutto in altre specie”.

 

Un elettrone (rosso) lungo un nanotubo di carbonio è 'legato' alla buca (blu) che si lascia dietro e forma un eccitone.

Uno studio Cnr rivela che in questi cilindri ottenuti arrotolando il grafene, con raggio di pochi nanometri e lunghi quanto il diametro di un capello, si realizza l’isolante eccitonico, predetto mezzo secolo fa dal premio Nobel Walter Kohn e finora mai confermato in modo convincente. La ricerca, pubblicata su Nature Communications, aiuta a far luce sulla natura isolante o conduttiva dei nanotubi di carbonio

 

Ricercatori dell’Istituto nanoscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (Nano-Cnr) hanno mostrato che nei nanotubi di carbonio si realizza spontaneamente un nuovo stato quantistico della materia, detto isolante eccitonico, predetto mezzo secolo fa dal premio Nobel Walter Kohn e finora mai confermato in modo definitivo. Lo studio, condotto in collaborazione con Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa), Istituto officina dei materiali (Iom-Cnr) e Istituto struttura della materia (Ism-Cnr) del Consiglio nazionale delle ricerche, è stato pubblicato su Nature Communications.

I nanotubi di carbonio sono cilindri ottenuti dal grafene, materiale bidimensionale composto da un foglio di carbonio dello spessore di un solo atomo che, una volta arrotolato, forma tubi con raggio di pochi nanometri (un nanometro è pari a un miliardesimo di metro) e lunghi quanto il diametro di un capello. Finora il comportamento di una classe importante di nanotubi, in grado di condurre corrente elettrica, si spiegava supponendo che gli elettroni degli atomi di carbonio si muovessero facilmente e indipendentemente uno dall’altro per tutta la lunghezza, cioè che il materiale si comportasse come un metallo. I ricercatori di Nano-Cnr hanno invece dimostrato che quando un elettrone abbandona un atomo di carbonio non si muove liberamente ma si lega con la buca che lascia dietro di sé, formando una particella composita fatta dall’elettrone e dalla buca, detta eccitone.

Dettaglio del setup sperimentale del laboratorio di fotonica avanzata nel centro Nanotec-Cnr di Lecce. A destra, progressiva formazione ed estensione della fase ordinata di un condensato di luce.

 

Una ricerca condotta dai ricercatori dell’Istituto di nanotecnologia del Cnr rivela la formazione spontanea di ordine topologico in un sistema fotonico. In pratica, le interazioni sono in grado di 'sintonizzare' spontaneamente i fotoni fra loro, neutralizzando la dissipazione energetica. Il lavoro, pubblicato su Nature Materials, contribuisce all’espansione del moderno campo di ricerca in fluidi quantistici di luce

 

Uno studio condotto recentemente dall’Istituto di nanotecnologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Nanotec-Cnr) di Lecce rivela che i fotoni, ovvero particelle di luce, si possono ‘sintonizzare’ spontaneamente fra loro, quando l’interazione è sufficientemente forte, formando ordine là dove non ce ne dovrebbe essere. Questo significa che uno dei risultati più importanti della fisica del secolo scorso, ovvero la scoperta di un ordine ‘topologico’ della materia, premiato dal Nobel 2016, viene esteso a sistemi fatti di luce e potrebbe diventare la base per future tecnologie. I risultati sono pubblicati sulla rivista Nature Materials.

“La meccanica statistica pone condizioni precise affinché queste ‘transizioni di fase’ possano essere osservate in natura. Una transizione di fase avviene quando, al variare di un parametro (di solito la temperatura) cambiano improvvisamente le relazioni fra i costituenti elementari di un sistema”, spiega Daniele Sanvitto, coordinatore del gruppo di fotonica avanzata del Nanotec-Cnr di Lecce. “Per esempio, nel passaggio da una fase più ordinata (liquido) ad una più disordinata (gassoso), oppure nell’emergere di un ordine reticolare nei cristalli o nell’allineamento dei campi magnetici microscopici in un ferromagnete. Ciò è vero anche a livello quantistico: in un condensato di Bose-Einstein, ogni atomo diventa indistinguibile dagli altri al di sotto di una certa temperatura. Ma le transizioni di fase dipendono fortemente dalla dimensionalità del sistema e in sistemi bidimensionali, ovvero confinati in uno spazio a sole due dimensioni, le fasi ordinate sono instabili anche a temperature molto basse favorendo la formazione di strutture disordinate. In questi sistemi esiste però una fase particolare chiamata ‘ordine topologico’, in cui le irregolarità di segno opposto si neutralizzano a vicenda, simmetricamente, e rimangono localizzate in punti spaziali relativamente piccoli, annullando gli effetti a lunga distanza”.

 

Pubblicato su Science uno studio che svela i meccanismi catalitici del nichel nella crescita di fogli di grafene. La ricerca, realizzata da Iom-Cnr e Università di Trieste, apre nuove strategie per migliorare la produzione a livello industriale di questo materiale dalle molteplici virtù

 

Il grafene è un materiale bidimensionale, composto da uno strato di atomi di carbonio, quindi sottilissimo ma anche flessibile come la plastica e con una resistenza meccanica cento volte superiore all’acciaio. Per questo è considerato praticamente perfetto per molteplici usi nel campo industriale e tecnologico, tuttavia la difficoltà di produzione ne rende l’utilizzo estremamente costoso. Uno studio condotto dall’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche di Trieste (Iom-Cnr) e dal dipartimento di Fisica dell’Università degli studi di Trieste, ora pubblicato su Science, individua il meccanismo di accrescimento del grafene sulla superficie di un comune metallo, il nichel, aprendo nuove possibilità nelle tecnologie di produzione. “Sappiamo che sulle superfici metalliche sono presenti singoli atomi, liberi di muoversi agilmente e che partecipano a molti dei processi che avvengono sulle superfici stesse”, spiega Cristina Africh, dell’Iom-Cnr. “Nel nostro studio abbiamo evidenziato che, in un campione di nichel utilizzato per la generazione di grafene, sono proprio gli atomi liberi del nichel ad agire da catalizzatori, facilitando il processo di formazione del grafene”.

Immagine: Reticolo di Bragg in fibra - Credits: Maria Konstantaki, Foundation of Research and Technology – Hellas 

I reticoli di Bragg in fibra vengono utilizzati per trasformare una fibra ottica in un elemento sensibile in grado di riflettere una specifica lunghezza d'onda nella direzione da cui proviene. I nuovi reticoli di Bragg in fibra ottica bioriassorbibile possono essere utilizzati come sensori nel corpo e sono sicuri anche se la fibra dovesse rompersi accidentalmente all'interno del corpo del paziente.

 

Una nuova generazione di sensori ottici che hanno la capacità di dissolversi completamente all'interno del corpo umano in maniera controllata e senza effetti collaterali, grazie all’impiego dei cosiddetti “reticoli di Bragg in fibra” (Fiber Bragg Gratings, abbreviati con FBG). Il lavoro di ricerca pubblicato sulla rivista scientifica Optics Letters è stato realizzato da un team internazionale composto da ricercatori del Centro Interdipartimentale PhotoNext del Politecnico di Torino e dell’Istituto Superiore Mario Boella (Torino) in collaborazione con i ricercatori dell’Institute of Electronic Structure and Laser (IESL) della Foundation of Research and Technology – Hellas (FORTH), di Creta.

La ricerca segna un passo avanti importante nello sviluppo di sensori ottici impiantabili, combinando le caratteristiche uniche di una fibra di vetro progettata per essere bioriassorbibile e gli FBG, che funzionano da sensori ottici di temperatura e deformazione. Questi ultimi sono solitamente impiegati per applicazioni quali il monitoraggio delle strutture dei ponti o dell'integrità delle ali di un aeroplano, ma il loro impiego in ambito biomedicale è reso difficile a causa dei materiali usati nelle fibre ottiche standard. Questo perché le fibre ottiche tradizionali a base di silicio se si rompono all’interno del corpo possono causare infiammazioni locali acute molto gravi e non sono rimovibili.

 

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