Lo studio, pubblicato su Nature Communications Biology, ha preso in esame il virus della sindrome respiratoria acuta grave coronavirus di tipo 2 (SARS-CoV-2), che dall’inizio della pandemia ha subito una costante evoluzione, assumendo le forme di numerosissime “varianti” classificate in funzione della loro rilevanza epidemica e sanitaria come VOC (variant of concern), VOI (variant of interest) e VUM (variant under monitoring) a seconda del grado di infettività, della capacità di eludere la risposta immunitaria, e della severità della malattia causata.
“Per fronteggiare una crisi pandemica e minimizzarne l’impatto sociale e sanitario è cruciale la capacità di riconoscere immediatamente le varianti più pericolose (VOC): l’analisi retrospettiva presentata in questo studio dimostra come il tempo intercorso tra la prima osservazione delle varianti critiche (es. alfa, delta, omicron), pari anche a oltre due mesi, si sia rilevato troppo lungo per mettere in atto pratiche di contenimento adeguate”, spiega Graziano Pesole del Cnr-Ibiom e dell’Università di Bari. “Attraverso questo nuovo studio è stato possibile, mediante un’analisi comparativa di un gran numero di caratteristiche derivate dall’analisi dei genomi virali, elaborare un indice di “pericolosità” che può essere calcolato in pochi secondi non appena la nuova variante viene osservata”.
Tale metodologia innovativa permette, così, di caratterizzare nuove varianti non appena queste cominciano a moltiplicarsi nella popolazione, valutando il potenziale impatto patogenico ed epidemiologico di eventuali nuove pandemie con tempestività, e migliorando anche l’efficienza della risposta sanitaria.
“Lo studio dimostra l’importanza della sorveglianza genomica per campionare in modo omogeneo i genomi virali in diversi intervalli di tempo e a intervalli di tempo regolari”, conclude Pesole.