Lo scheletro del guardiano nel suo letto di legno presso Collegium Augustalium, nel Parco Archeologico di Ercolano. (particolare). Foto di P.P. Petrone

 

 

È un caso unico nel suo genere la vetrificazione di materiale organico cerebrale, trovato nel cranio di un antico ercolanese vittima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. A dare una risposta su come sia potuto accadere un team italo-tedesco di ricercatori guidato dal vulcanologo Guido Giordano del Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre.

Lo studio è stato appena pubblicato su Scientific Reports con il titolo “Unique formation of organic glass from a human brain in the Vesuvius eruption of 79 CE” 

È un caso unico nel suo genere la formazione di materiale organico vetrificato, trovato nel cranio di un giovane adulto maschio, sepolto dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C e trovato disteso nel suo letto nel Collegium Augustalium, nel Parco Archeologico di Ercolano.
In natura il vetro è una materiale poco comune perché la sua formazione richiede un rapido raffreddamento dallo stato liquido, tale da non permetterne la cristallizzazione quando diventa solido. Estremamente più difficile che si formi e si conservi un vetro da materiale organico poiché essendo composto per gran parte da acqua - che è liquida a temperatura ambiente - si può trasformare in vetro solo abbassando rapidamente la temperatura molto al di sotto dello zero e conservare come tale a quelle temperature.
Il ritrovamento di materiale cerebrale vetrificato a Ercolano richiede dunque condizioni molto specifiche che sono state svelate da un team italo-tedesco di ricercatori guidato dal vulcanologo Guido Giordano del Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre e appena pubblicate su Scientific Reports dal titolo “Link identifier #identifier__47012-2Unique formation of organic glass from a human brain in the Vesuvius eruption of 79 CE” ( DOI: 10.1038/s41598-025-88894-5).


Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.
Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l'evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.


Crescita dello smalto dentale più lenta e nessuna differenza tra i due sessi: un nuovo studio, frutto della collaborazione tra la Sapienza, l’Università di Bologna e l’Università di Modena e Reggio Emilia, rivela importanti informazioni sullo sviluppo dei bambini medievali italiani. I risultati pubblicati sulla rivista PLOS ONE
Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Plos One e condotto in collaborazione tra Sapienza Università di Roma, l’Università di Bologna, l’Università di Modena e Reggio Emilia, ha rivelato una differenza significativa nei tempi di sviluppo dentale tra i bambini medievali italiani e i bambini europei moderni.

Denti fossili di squalo



Un gruppo di ricerca multidisciplinare, composto da esperti dell’Istituto di fisica applicata "Nello Carrara" (Cnr-Ifac), dell’Università di Pisa, del Museo Paleontologico GAMPS di Scandicci e del Dipartimento di Computer Science dell'Università di Cambridge, ha sperimentato un nuovo approccio di studio basato sull’Intelligenza Artificiale, per analizzare i denti fossili di squali vissuti nel Pliocene, trovati nella campagna della Toscana. Essi sono testimonianze di vita marina risalente al periodo che va da 5 a 2,5 milioni di anni fa, quando gran parte della regione, in particolar modo la zona di Siena, era sommersa dal mare profondo, ricco di pesci, alcuni dei quali estinti.


L’ibridazione genetica con i Denisoviani ha permesso alle attuali popolazioni dell’Himalaya di evolvere adattamenti utili per ridurre il rischio cardiovascolare associato alla scarsità di ossigeno nel sangue e garantire un adeguato livello di ossigenazione dei tessuti, caratteristiche fondamentali per la sopravvivenza ad elevate altitudini.


Le popolazioni Tibetane e Sherpa che vivono nella regione dell'Himalaya hanno acquisito, a seguito del mescolamento con l'Uomo di Denisova, una serie di varianti
genetiche che gli permettono di vivere stabilmente ad alta quota. La scoperta - pubblicata sulla rivista eLife - è stata realizzata da un gruppo
di ricerca coordinato dall'Università di Bologna. Gli studiosi hanno analizzato i genomi di individui appartenenti a gruppi etnici nativi delle regioni himalayane di Tibet e Nepal per capire l’impatto biologico che hanno avuto varianti introdotte nel loro patrimonio genetico dall'ibridazione con popolazioni di Uomo di Denisova, una specie umana arcaica vissuta in Asia fino a circa 30.000 anni fa.
L'obiettivo era verificare se queste varianti genetiche si fossero rivelate vantaggiose per far fronte agli stress della vita ad alta quota, primo fra tutti la ridotta capacità dell’organismo di catturare l’ossigeno presente nell’atmosfera.


La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, ha coinvolto il paleontologo dell’Università di Pisa, Luca Pandolfi.

I più antichi antenati del bue domestico sono stati scoperti nella valle dell’Indo e nella mezzaluna fertile in Mesopotamia: si tratta di resti di uro (Bos primigenius) risalenti a circa 10mila anni fa. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature e condotta dal Trinity College di Dublino e dall’Università di Copenaghen, ha coinvolto Luca Pandolfi, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che da tempo si occupa dell’evoluzione e dell’estinzione dei grandi mammiferi continentali anche in relazione ai cambiamenti climatici.


Un team interdisciplinare di scienziati di cui fa parte l’Università degli Studi di Milano ha scoperto che l’interazione tra proteine e RNA nel ribosoma primordiale, un fossile molecolare ancora presente nella struttura cellulare attuale, ha prevenuto la degradazione dell’RNA stesso, permettendo l’emergere delle attuali e specifiche relazioni RNA-proteine, essenziali per l’integrità strutturale ribosomiale e quindi per la vita. La pubblicazione su Nucleic Acids Research.
La vita, come la conosciamo oggi, si basa sulla connessione tra gli acidi nucleici, che immagazzinano informazioni, le proteine, che svolgono innumerevoli compiti, e i lipidi che formano le membrane circostanti. Queste interazioni tra precursori molecolari iniziarono a verificarsi più di 4 miliardi di anni fa, prima che emergessero le prime forme di vita.

Oued Beht, Khemisset. Foto aerea del sito (foto: T. Wilkinson, Archivio OBAP)

Oued Beht, Khemisset. Foto aerea del sito (foto: T. Wilkinson, Archivio OBAP)

 


A Oued Beht in Marocco, grazie a un progetto di ricerche archeologiche multidisciplinari, è venuto alla luce il più antico complesso agricolo finora documentato in Africa al di fuori della Valle del Nilo. Le testimonianze individuate indicano, infatti, la presenza di un vasto insediamento di circa dieci ettari, paragonabile per dimensioni al sito di Troia dell’età del Bronzo Antico.

Oued Beht, secondo gli studiosi, fornisce nuove e importantissime informazioni sul popolamento del Maghreb tra IV e III millennio a.C., confermando il ruolo cruciale di questa regione nell'evoluzione delle società complesse nel Mediterraneo e in Africa settentrionale. I risultati delle ricerche sono stati pubblicati in un articolo open access sulla rivista Antiquity.

 


Le iene siciliane, che abitavano l’isola prima dell’arrivo di Homo sapiens, appartengono a un gruppo diverso da quelle africane: si tratta di una popolazione “relitta” di iene insulari, caratteristica che le rende uniche al mondo, il cui DNA fossile nei resti biologici è sopravvissuto al clima caldo del Mediterraneo. La pubblicazione su Quaternary Science Reviews.
Prima ancora che Homo sapiens arrivasse in Sicilia, circa 16 mila anni fa, sull’isola erano molto diffuse le iene del genere Crocuta.

Tra i più iconici carnivori delle savane, la iena macchiata è oggi presente in buona parte dell'Africa sub-sahariana, ma durante il Pleistocene, tra 800 e 16 mila anni fa, era diffusa in territori molto più ampi che includevano l’Europa e l’Asia, mentre l’unica isola dove la presenza di questa specie è stata documenta-ta dai fossili, è la Sicilia. Questa caratteristica rende le iene siciliane uniche da un punto di vista paleo-biologico e offre agli studiosi una rara opportunità per comprendere meglio sia gli adattamenti che i pro-cessi evolutivi legati all’isolamento geografico di un grande carnivoro, estremamente raro in contesti insulari.


Identificata l’immagine di un grande felino nella pietra rinvenuta a Grotta Romanelli da un team internazionale di cui fanno parte anche ricercatori della Sapienza. Il reperto è stato datato a circa 12.000 anni fa, quando erano presenti ormai pochi esemplari di leone nel nostro continente. Lo studio rivela importanti peculiarità sull’arte delle ultime società di cacciatori e raccoglitori dell’Italia e dell’Europa.


Un nuovo studio, frutto di un approccio interdisciplinare che ha coinvolto ricercatori di diversi enti, fra cui Sapienza Università di Roma, ha identificato in una pietra rinvenuta 80 anni fa a Grotta Romanelli (Castro, Lecce) l’immagine di un grande leone, databile a circa 12.000 anni fa. Il reperto costituisce l'ultima rappresentazione e anche l'ultima testimonianza di leone delle caverne in Europa. La ricerca, a cui hanno collaborato anche CNRS, Université Jean-Jaurés, ISPC-CNR, Universidad Complutense de Madrid, Università di Milano, Università di Torino, IGAG-CNR e Università di Cagliari, è stata pubblicata sulla rivista Quaternary Science Reviews.

 

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