Conservato presso il Museo di Antropologia “G. Sergi” della Sapienza, il corpo del guerriero, a cui mancano la mano destra, il polso e parte dell’avambraccio, è una importante testimonianza di amputazione perfettamente guarita e di pratiche di cura moderne

Il Laboratorio di Paleoantropologia e bioarcheologia del Dipartimento di Biologia ambientale ha analizzato i resti scheletrici di un antico guerriero longobardo ritrovato in una necropoli del Veneto e conservato presso il Museo di Antropologia “G. Sergi” della Sapienza, diretto da Giorgio Manzi. Dagli studi condotti insieme al Dipartimento di Scienze dell’antichità e alla Scuola di Dottorato in Archeologia della Sapienza, in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, è emerso che il corpo del guerriero, a cui mancano la mano destra, il polso e parte dell’avambraccio, è una importante testimonianza di amputazione perfettamente guarita e di pratiche di cura moderne. I ricercatori hanno preso in considerazione diverse circostanze per spiegare da una parte le cause, e quindi cosa può aver portato all’amputazione dell’avambraccio, dall’altra gli esiti, ovvero come si sopravviveva 1300 anni fa, in un’epoca pre-antibiotica, a un’operazione così rischiosa.

“Il coltello era orizzontale, appoggiato al bacino mentre di norma viene sepolto al fianco del cadavere”, spiega Ileana Micarelli, primo nome dello studio. “Il braccio destro era piegato a 90 gradi, con radio e ulna tagliati al netto e al posto della mano c’erano una fibbia metallica e tracce di materiale organico, pelle o legno. L’amputazione è avvenuta con un colpo unico e senza anestesia”. Lo studio, pubblicato sul Journal of Anthropological Sciences (JASs), ha ipotizzato che l’uomo appartenesse alla prima generazione di longobardi arrivati in Italia dall’Europa dell’est, e che per una caduta da cavallo, una ferita di battaglia divenuta infetta o per la comminazione di una pena, potesse aver subito l’amputazione dell’avambraccio.

La scoperta dell’équipe Paleopatologia dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista The Lancet Oncology

Un tumore osseo di mille anni fa, il più antico nel suo genere mai rinvenuto, è stato scoperto dall’équipe della divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa coordinata dalla professoressa Valentina Giuffra. Si tratta di un osteoblastoma che ricercatori hanno diagnosticato nel seno frontale del cranio in uno scheletro datato al X-XII secolo e portato alla luce durante gli scavi archeologici condotti nel 2004 presso il grande cimitero medievale della pieve di Pava (Siena). 
La scoperta, appena pubblicata sulla rivista scientifica internazionale “The Lancet Oncology”, getta nuova luce sull’antichità dei tumori ossei e pone le basi per nuove ricerche nel campo della paleoncologia.
L’individuo, un giovane maschio di 25-35 anni, presentava in corrispondenza dell’osso frontale una rottura post mortale che ha permesso di osservare la presenza di una piccola neoformazione ovalare all’interno del seno frontale destro del cranio. Grazie all’ausilio di moderne tecniche radiologiche ed istologiche, gli studiosi sono riusciti a chiarire che la natura patologica della lesione era proprio un osteoblastoma.
“L’osteoblastoma è un raro tumore benigno dell'osso che rappresenta attualmente circa il 3,5% di tutti i tumori primitivi benigni dell'osso e l'1% di tutte le neoplasie ossee - afferma il professore Gino Fornaciari dell’Università di Pisa e coautore della pubblicazione – di solito colpisce prevalentemente i giovani adulti, prediligendo la colonna vertebrale e le ossa lunghe, la localizzazione nel cranio e nei seni paranasali è invece estremamente inconsueta e pochissimi sono i casi noti nella letteratura clinica moderna”. 
“E’ stato estremamente sorprendente essere riusciti a trovare testimonianza di questa condizione addirittura nei resti scheletri umani. Ad oggi infatti, il caso medievale di Pava risulta essere la prima attestazione paleopatologica di osteoblastoma del seno frontale, confermando l'esistenza di questo raro tumore osseo benigno a quasi 1000 anni fa” conclude la dottoressa Giulia Riccomi, dottoranda dell’Ateneo pisano e primo autore della pubblicazione.

 

Per la prima volta affrontato lo scavo di un porto sumerico risalente al 3° millennio a.C., grazie alla campagna archeologica condotta nell’Iraq meridionale, diretta da Licia Romano e Franco D'Agostino

Gli archeologi del team di Abu Tbeirah hanno individuato e stanno scavando un porto risalente al 3° millennio a.C.: uno scavo che consentirà di scrivere un nuovo capitolo della storia della Mesopotamia e della sua civiltà, nata dalle acque del Tigri e dell'Eufrate, superando l'immaginario comune che identifica le antiche città mesopotamiche attorniate da distese di campi di cerali, irrigati da canali artificiali.
La Missione Archeologica italo-irachena ad Abu Tbeirah, diretta da Licia Romano e Franco D'Agostino, presenterà l’importante risultato della campagna condotta nell’Iraq meridionale, mercoledì 21 marzo presso il Rettorato, con una iniziativa promossa dalla Fondazione Sapienza.

Un gruppo di ricerca internazionale coordinato dalla Sapienza, ha utilizzato una tecnica innovativa di sequenziamento del Dna per ricostruire l’evoluzione della specie umana all’interno del continente africano. I risultati sono pubblicati su Genome Biology. La storia dei movimenti umani attraverso il Sahara, è racchiusa non solo nei reperti archeologici riconducibili ad antichi insediamenti sahariani, ma anche nel nostro genoma. Questa nuova prospettiva, che finora non era mai stata analizzata, è stata adottata dal team di ricerca internazionale coordinato da Fulvio Cruciani del Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza di Roma, evidenziando che il pool genetico maschile di popolazioni nord-africane e sub-sahariane è stato plasmato da antiche migrazioni umane trans-sahariane. Lo studio, pubblicato dal gruppo sulla rivista Genome Biology, costituisce un importante contributo al progresso conoscitivo sull’evoluzione umana e in particolare sul ruolo del cosiddetto “Green Sahara” nel popolamento dell’Africa.

Durante l’optimum climatico dell’Olocene (tra 12 mila e 5 mila anni fa), il Sahara era una terra fertile (da cui “Green Sahara”) e dunque non rappresentava una barriera geografica per eventuali sposamenti umani tra l’Africa sub-sahariana e le coste mediterranee del continente. Per analizzare il popolamento di questa regione i ricercatori si sono avvalsi di una tecnica innovativa (next-generation sequencing) per sequenziare circa 3,3 milioni di basi del cromosoma Y umano in 104 individui maschi, selezionati mediante uno screening di migliaia di campioni.

L'eccezionale ritrovamento ha pochissimi precedenti: rarissimi i siti con impronte umane più antichi di 300.000 anni. Per la prima volta le orme sono state trovate in un sito archeologico nel quale sono documentate le attività quotidiane nel loro insieme. I siti con impronte umane più antichi di 300.000 anni si contano nel mondo sulle dita di una mano e anche per questo la recente scoperta in Etiopia aumenta in modo significativo le nostre conoscenze. Si tratta di un livello improntato, perfettamente datato, perché direttamente coperto da un tufo vulcanico di 700.000 anni fa, di Gombore II-2, sito che è parte di Melka Kunture, una località dell’alto bacino del fiume Awash, a 2.000m slm. Qui da anni si svolgono le campagne di ricerca di uno dei Grandi scavi di ateneo, finanziato da Sapienza e dal Ministero Affari esteri.

La zona scavata corrisponde a un’area intensamente frequentata, ai margini di una piccola pozza d'acqua in cui probabilmente si abbeveravano, oltre agli ominidi, alcuni animali prossimi agli attuali gnu e gazzelle, nonché uccellini, equidi e suidi; anche gli ippopotami hanno lasciato tracce dei loro passaggi.
Le impronte delle varie specie si intersecano tra di loro e si sovrappongono a tratti a quelle degli esseri umani, individui in parte adulti e in parte di 1, 2 e 3 anni. In particolare uno di questi bambini in tenera età propriamente non camminava, ma era in piedi e si dondolava: la sua è l'impronta di un piede che ha calpestato ripetutamente il suolo, rimanendo appoggiato sui talloni, e ha lasciato impressa una serie di piccole dita (più di cinque) in parte sovrapposte dalla ripetizione del movimento.

La ricerca di una equipe italiana di archeologi e botanici, coordinata dalla Sapienza e dall’Università di Modena e Reggio Emilia, racconta di forme di coltivazione preistorica, fino a oggi sconosciute, nell’Africa sahariana di circa 10.000 anni fa. Lo studio è pubblicato su Nature Plants. Diecimila anni fa, nell’Africa sahariana, che all’epoca non era un deserto, si coltivavano e mangiavano piante e cereali selvatici. E’ l’ultima scoperta, pubblicata su Nature Plants, che arriva dalla “Missione archeologica nel Sahara” di Sapienza Università di Roma, diretta da Savino di Lernia, a cui hanno preso parte anche i botanici dell’Università di Modena e Reggio Emilia. La ricerca combinata di archeologia e archeobotanica, condotta per diversi anni nel sito archeologico di Takarkori, in Libia sud-occidentale, nel cuore del Sahara, illustra e descrive millenni di lavorazione e stoccaggio, e di come cacciatori-raccoglitori prima (tra 10000 e 8000 anni fa), e pastori poi (tra 7000 e 5500 anni fa), abbiano praticato forme di coltivazione di cereali selvatici, senza che queste piante venissero mai domesticate.

 

In 2009, the world's largest dinosaur tracks were discovered in the French village of Plagne, in the Jura Mountains. Since then, a series of excavations at the site has uncovered other tracks, sprawling over more than 150 meters. They form the longest sauropod trackway ever to be found. Having compiled and analyzed the collected data, which is published in Geobios, scientists from the Laboratoire de Géologie de Lyon (CNRS / ENS de Lyon / Claude Bernard Lyon 1 University), the Laboratoire Magmas et Volcans (CNRS / Université Clermont Auvergne / Université Jean Monnet / IRD), and the Pterosaur Beach Museum conclude these tracks were left 150 million years ago by a dinosaur at least 35 m long and weighing no less than 35 t.

Il cranio dell'"uomo di Ceprano", ora restaurato digitalmente, potrebbe appartenere alla cosiddetta umanità di mezzo

 

Il restauro digitale dell’uomo di Ceprano – così viene chiamato un cranio fossile rinvenuto nel marzo 1994 in provincia di Frosinone – ha permesso il recupero dell’originaria struttura del reperto, che si è rivelata morfologicamente più simile alla cosiddetta “umanità di mezzo”, nota con il nome scientifico di Homo heidelbergensis. Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Scientific Reports, è coordinato da Giorgio Manzi del Dipartimento di Biologia ambientale, attuale direttore del Polo museale Sapienza, in collaborazione con diversi altri ricercatori e con la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Roma, Viterbo ed Etruria meridionale. Il cranio, plasticamente deformato dall’azione dei sedimenti in cui si è fossilizzato, era stato ricostruito utilizzando i frammenti originali e facendo ricorso a una grande quantità di inserti di gesso per tenerli uniti fra loro. L’alterazione della morfologia originaria ha reso difficile ogni ulteriore modifica nella disposizione dei frammenti, lasciando irrisolta per anni l’interpretazione tassonomica del cranio di Ceprano.

 

Dagli scavi a Melka Kuture, la scoperta di un percorso evolutivo discontinuo dal genere Homo all’Homo sapiens

Tracciare il percorso dell’evoluzione umana è possibile, specialmente in Africa orientale dove si trovano i siti archeologici che meglio raccontano il percorso dei nostri antenati. L’associazione diretta tra una determinata specie umana e una specifica tecnica di produzione degli utensili in pietra (industria litica) ha, fino a oggi, consentito di raccontare questo percorso come un fenomeno unitario. Nell’articolo pubblicato sul Journal of Anthropological Sciences, Margherita Mussi del Dipartimento di Scienze dell’Antichità della Sapienza e direttrice delle ricerche archeologiche a Melka Kunture (Etiopia), uno dei Grandi Scavi della Sapienza, propone, insieme a Rosalia Gallotti, una nuova interpretazione dello sviluppo dell’Acheuleano, cultura del Paleolitico inferiore. Questa cultura rappresenta una fase molto lunga (da 1, 8 milioni a 100.000 anni fa) e importante dell’evoluzione umana ed è caratterizzata da una innovazione tecnica nella scheggiatura dei manufatti – che comprendono i caratteristici “bifacciali” a forma di mandorla –, evidenziando un vero e proprio salto di qualità rispetto ai periodi precedenti. Le industrie acheuleane più antiche sono state rinvenute appunto in Africa.

 

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